Una persuasione comune, molto in voga in alcuni ambienti della sinistra radicale, evoca l'idea di una spirale “guerra-terrorismo” che, così come è stata convenzionalmente definita, costituirebbe una minaccia incombente sull'intera umanità. Tuttavia, tale apparente dicotomia non rappresenta e non offre un’effettiva alternativa tra due differenti opzioni, ma al contrario rivela due facce della stessa medaglia. In effetti si tratta di un mostruoso parto gemellare generato dal medesimo sistema, un'economia di guerra e di riarmo che ha un incessante bisogno della violenza organizzata in varie forme, per rigenerarsi, ricostituirsi e perpetuarsi all’infinito. Da questo meccanismo perverso discende la necessità di una sorta di produzione su scala industriale della violenza, del delitto, del "mostro", che serve quale facile e comodo capro espiatorio atto giustificare la richiesta e l'approvazione, da parte dell'opinione pubblica (nazionale e internazionale), di nuovi interventi armati da compiere sia all'interno che all'esterno della vigente società occidentale capitalistico-guerrafondaia. In tal modo nascono, si formano e ritrovano una precisa ragion d'essere i vari Saddam Hussein, Bin Laden & soci, ossia i cosiddetti "criminali" che diventano una sorta di spauracchio ufficiale, perfettamente funzionale ad una logica di riproduzione della violenza legalizzata e istituzionalizzata atta a conservare e perpetuare i rapporti di comando e subordinazione esistenti all'interno (su scala nazionale) e all'esterno (su scala globale) della società capitalistico-borghese imposta dai bianchi occidentali.
Ogni anno, nel periodo di
Luglio, si ripete e si rinnova una sorta di rituale celebrazione, durante
la quale vengono rievocate le drammatiche giornate di Genova nel 2001, segnate
dalle terribili violenze della repressione poliziesca, dall’assalto alla scuola
Diaz, dalle torture nel carcere di Bolzaneto,
dall’assassinio di Carlo Giuliani, ecc. Qualcuno potrebbe obiettare
che bisogna rammentare anche le violenze dei black-bloc (ma su tali vicende non si è mai
fatta luce, dato che sussistono numerose zone d’ombra, tanti misteri e lati
oscuri che avvolgono la realtà dei fatti), violenze che sono anch’esse un parto
degenere di un sistema sempre più marcio, putrido e incancrenito, capace di
produrre in quantità industriale soprattutto “merci” come la violenza, l’odio e
la distruzione, in quanto ne ha bisogno come
l’aria che respiriamo, per poter giustificare la sua stessa esistenza.
Si pensi alla rivolta di massa che
oltre un anno fa è esplosa con furore nella banlieue parigina, espandendosi
rapidamente ad altre periferie urbane della Francia.
Sempre in Francia, tempo addietro abbiamo assistito alla nascita di un
movimento di protesta e di contestazione giovanile che ha assunto proporzioni di
massa, simili, benché non paragonabili, all'esperienza storica del maggio
1968, nella misura in cui le cause e il contesto erano
senza dubbio differenti. Per comprendere tali fenomeni
sociali così complessi e difficili, occorre rendersi conto di ciò che sono
effettivamente diventate le aree metropolitane suburbane in Francia (ma il discorso vale anche altrove, in Europa e nel
mondo), cioé assurdi e ignobili luoghi di ghettizzazione e alienazione di
massa. Per capire bisognerebbe calarsi in
quella realtà quotidiana dove il disagio sociale, il degrado urbano e morale, la
violenza di classe, la precarietà economica e il vuoto esistenziale, la
disperazione e l’emarginazione dei giovani (soprattutto di
origine extracomunitaria) costituiscono il background materiale e
ambientale che genera inevitabilmente manifestazioni di rabbia, di ribellione e
di guerriglia urbana. Invece, tali vicende vengono bollate in modo banale e superficiale come atti di
“teppismo”, di “delinquenza” o addirittura di “terrorismo”, secondo parametri
razzisti e classisti tipici di quella mentalità ipocrita e benpensante che da
sempre appartiene alla borghesia bianca occidentale, non solo della Francia, ma
dell’Europa e dell'intero occidente. Insomma, tutte queste
vicende sono strettamente legate da un comune denominatore: la violenza, nella
fattispecie la violenza istituzionalizzata e il monopolio di
legalità imposto nella società. Su tale argomento varrebbe la pena di
spendere qualche parola per avviare un ragionamento storico, critico e politico
il più possibile serio e rigoroso. Io voglio provarci, partendo ovviamente dal
mio punto di vista e avvalendomi delle mie capacità analitiche, delle mie conoscenze ed esperienze.
La violenza, intesa come comportamento individuale, ha senza dubbio un fondamento più profondo e complesso, insito nella struttura sociale. Ad esempio, nella realtà delle società capitaliste, la violenza del singolo, la ribellione giovanile apparentemente priva di cause, l’alienazione, la follia, il vandalismo, oppure il teppismo negli stadi di calcio (o ad una manifestazione), la criminalità comune, la perversione di quei soggetti qualificati come “mostri”, sono sempre il frutto (marcio) generato da una formazione sociale che ha bisogno di produrre odio e violenza; sono la manifestazione di un contesto storico-sociale che, per sua natura, crea conflittualità, contribuendo alla depravazione dell’animo umano che in tal modo viene ad essere intimamente condizionato dall’ambiente esterno. Dunque la violenza non è una questione di malvagità o perversione individuale, ma è un problema sociale, ovvero costituisce la facciata esteriore e fenomenica dietro cui si camuffa la violenza organizzata della società, è lo strato superficiale sotto cui giace, si espande e si incancrenisce la corruzione dell’ordine costituito. In effetti è alquanto difficile determinare e concepire la violenza come un comportamento naturale, etologico, immutabile, dell’essere umano, in quanto è la natura stessa dell’organizzazione sociale, il vero principio che genera i cosiddetti “mostri”, i criminali, i violenti in quanto singoli individui, che sono spesso quei soggetti più labili e vulnerabili sotto il profilo psichico ed emotivo, che finiscono per diventare il "capro espiatorio" su cui si scaricano tutte le tensioni, le frustrazioni e le conflittualità insite, in forma latente, nell'ordinamento sociale vigente.
La visione che
attribuisce alla “cattiveria umana” la causa dei mali e dei problemi del mondo,
è soltanto un’ingenua e volgare mistificazione.
Il tema della violenza è talmente
vasto, enorme, complesso, da rivestire un’importanza centrale nell’ambito dello
sviluppo storico dell’intera umanità.
Sin dalle sue origini l’uomo ha
dovuto immediatamente attrezzarsi per fronteggiare la violenza esercitata
dall’ambiente naturale nel quale era inserito: il pericolo di
aggressione da parte delle belve feroci, le avversità atmosferiche, le
catastrofi e le sciagure naturali più terrificanti, quali terremoti, bradisismi,
vulcanismi, frane, incendi ecc., i suoi bisogni fisiologici da soddisfare, ossia
la fame, la sete, la necessità di procreare e via discorrendo.
In seguito, con il trascorrere dei
secoli, l’uomo è riuscito a compiere un immane progresso tecnologico e materiale
che lo ha affrancato dal suo primitivo asservimento alla natura, rovesciando, in
un certo senso, il rapporto originario tra l’uomo e l’ambiente.
Oggi, infatti, è soprattutto
l’uomo che arreca violenza alla natura, ma la relazione rischia di invertirsi
nuovamente, a scapito dell’uomo.
Durante la sua lunga evoluzione culturale e materiale, l’umanità ha creato e conosciuto svariate esperienze di violenza: la guerra, la tirannia, l’ingiustizia sociale, lo sfruttamento, la fatica quotidiana per la sopravvivenza, il carcere, la repressione, la rivoluzione, fino alle forme più rozze ed elementari come il teppismo, la prepotenza, la sopraffazione del singolo su un altro singolo. Tuttavia, tali fenomeni così disparati, pur nella loro molteplicità e nelle loro apparenti contraddizioni, si possono ricondurre ad un’unica matrice storico-causale, vale a dire la natura intrinsecamente violenta, ingiusta e disumana della struttura sociale e materiale su cui si erge l’organizzazione della vita e dei rapporti umani nel loro incessante divenire storico, la cui principale forza motrice risiede nella violenza della lotta di classe, ossia nello scontro e nella competizione tra varie forze economico-sociali per instaurare il controllo e il dominio nella società. Tale scontro di classe si estrinseca sia sul terreno politico-materiale, sia sul versante teorico-culturale, ed è una lotta per la conquista del potere politico-sociale ed economico-materiale, ma altresì per l'affermazione di un'egemonia ideologico-intellettuale sul resto della società.
Il problema
fondamentale della violenza nella storia umana (che è scisso dal tema della
violenza nel mondo preistorico) è costituito dall’ingiustizia e dalla violenza
insite nel cuore delle società classiste, le quali si basano sulla divisione
sociale dei ruoli lavorativi e sullo sfruttamento materiale di una classe sul
resto della società. Solo quando lo sviluppo delle
capacità economico-produttive e tecnologiche della società, avrà raggiunto un
livello tale da permettere il superamento e l’eliminazione della ragion d’essere
che finora ha giustificato e determinato lo sfruttamento del lavoro servile e
del lavoro salariato, l’umanità potrà compiere il grande balzo rivoluzionario che consisterà in un processo di
liberazione dalla violenza dell’ingiustizia e dello sfruttamento di classe.
Ebbene, è un dato di fatto che
tali condizioni, connesse al progresso
tecnico-scientifico ed alla produzione delle ricchezze sociali, siano già
presenti nella realtà oggettiva, ma sono mistificate e negate dal persistere di
un quadro (ormai obsoleto) di rapporti di supremazia e sottomissione tra le
classi sociali.
In tal senso, il potere borghese
non è mutato, i suoi rapporti all’interno e all’esterno sono sempre improntati
alla violenza. Esso continua a reggersi sulla violenza, in modo particolare
sulla forza bruta (legalizzata) di strutture e di
istituzioni repressive quali, ad esempio, il carcere, la polizia,
l’esercito. Nel
contempo, il potere borghese ha imparato
ad impiegare altre forme di controllo sociale, più morbide e sofisticate,
addirittura più efficaci, come la televisione e i mass-media.
Oggi, infatti, molti Stati
capitalistico-borghesi, soprattutto quelli più avanzati sul versante
scientifico-tecnologico, vengono gestiti e controllati
non solo e non tanto attraverso i sistemi tradizionali della violenza
legalizzata, cioè l'esercito e la polizia, quanto soprattutto ricorrendo alla
forza persuasiva, omologante ed alienante della televisione e dei mezzi di
comunicazione di massa.
Naturalmente, il discorso sulla
violenza non è per nulla concluso, né può esaurirsi in un breve esame come
questo, giacché si tratta di un tema talmente ampio, controverso e difficile, da
meritare molto più spazio, molto più tempo, molto più
studio e molto più ingegno di quanto possa fare il sottoscritto.
Per quanto mi riguarda, ho cercato
semplicemente di lanciare un input per far scaturire una riflessione
iniziale.
Lucio
Garofalo