Il provvedimento d’indulto
approvato a larghissima maggioranza dal Parlamento italiano, è stato spacciato
come un legittimo e doveroso atto di clemenza, se non addirittura di giustizia,
compiuto dallo stato italiano per risanare la gravissima crisi emergenziale in
cui versano le strutture penitenziarie. Non è un caso che gli unici voti
nettamente contrari siano venuti da Antonio Di Pietro e
dai suoi fedelissimi ipergiustizialisti, dai codini
della Lega e dai post-fascisti di Alleanza Nazionale, cioè dai settori più
apertamente reazionari, forcaioli ed oltranzisti del
quadro politico-istituzionale italiano.
Ebbene, il provvedimento emesso è
appunto una misura tampone, destinata a sospendere il problema in maniera
transitoria nel tempo e a rimuovere i pesanti sensi di colpa che turbano la
coscienza sporca della classe politica dirigente, sensi di colpa derivanti dalle
vergognose ed inaccettabili condizioni di vita in cui è
costretta la popolazione carceraria. Insomma, prima che esploda qualche rivolta
sanguinosa, si è ritenuto opportuno prevenire i danni, anziché affrontarli in
seguito, quando è più difficile rimediarvi. Di primo acchito si potrebbe
convenire e concordare con lo spirito di saggezza e di
indulgenza che pare aver animato ed ispirato la suddetta disposizione
legislativa. Trattasi, invece, di una misura puramente emergenziale, che
tuttavia non ha risolto nulla, dato che gran parte dei detenuti rimessi in
libertà pochi mesi or sono in seguito all’indulto,
stanno progressivamente rientrando in galera, avendo ripreso a delinquere, come
d’altronde era prevedibile che facessero. Arrestati e condannati una prima
volta, se non più volte, molti detenuti sono stati scarcerati grazie
all’indulto, per essere nuovamente arrestati, condannati e detenuti, in attesa di un nuovo sconto di
pena.
E’ chiaro allora che il vero scopo
del condono da parte dello Stato è un altro, molto più subdolo ed ingannevole.
Alla base di un simile gesto di “clemenza” risiede la volontà politica di occultare la natura reale, violenta, repressiva e
antidemocratica dello Stato che è il detentore del monopolio della forza
pubblica. In quanto tale, esso impone con la violenza e con la minaccia
repressiva, le sue leggi e le sue regole, le sue strutture e
le sue istituzioni, le sue ingiustizie e le sue contraddizioni, facendole
accettare come “diritto”, ovvero come “giustizia”, come “ordine costituito”,
eccetera. Ma il delitto non può essere trasfigurato
come “regola” o “diritto”, l’ingiustizia non può essere spacciata come “legge” o
“giustizia”, la violenza dell’oppressione, dello sfruttamento, della miseria,
dell’emarginazione, della guerra, non può essere camuffata sotto la veste
ipocrita e mistificatrice della “legge” e di un “ordine costituito”, che
pertanto non possono essere messi in discussione e non possono essere criticati,
e tanto meno modificati. La logica e l’ideologia imperanti nella nostra società,
accettano e pretendono che si consideri la violenza, l’ingiustizia, lo
sfruttamento materiale, la guerra, quali forme e fenomeni di un “ordine
naturale” del mondo, che è dunque inevitabile e permanente, ossia uno stato di
cose assolutamente immutabile. Eppure, la società borghese in cui viviamo è totalmente sorretta sulla violenza, tutti i
rapporti economico-sociali sono imperniati sulla violenza, sull’ipocrisia, sulla
mistificazione. Perciò io credo che il senso recondito di un provvedimento di indulto come quello adottato dal Parlamento italiano, sia
di carattere ideologico-strumentale. Si è trattato di
un’operazione di propaganda e di mistificazione politica, mirata ad esibire un
volto “buonista” e “garantista”, dietro cui si annida
invece la vera anima dell’ordine costituito, che è quella della repressione
poliziesca e carceraria, dell’ingiustizia di classe, della ritorsione, dello
squallore e del cinismo del potere, aspetti che non si possono ostentare con
eccessiva disinvoltura, ma devono essere opportunamente nascosti.
La falsa clemenza, la falsa
giustizia, e più un generale la falsa democrazia,
servono a celare il carattere più duro e cruento che appartiene ad una società
in cui la violenza e lo sfruttamento sono all’ordine del giorno, anzi stanno
all’origine stessa della società, e si concretizzano abitualmente in tutti i
rapporti della vita quotidiana degli individui, nelle carceri, in fabbrica, a
scuola, in famiglia, dappertutto, persino nei più consueti e normali rapporti
d’amore e d’amicizia. In tal senso, l’indulto ha offerto il lato ipocrita e
“perbenista” del sistema attualmente in vigore, e non
mi riferisco solo al sistema carcerario, ma all’intero sistema sociale, dominato
da interessi materiali di profitto, di arricchimento e di potere, che
coinvolgono un’esigua minoranza di soggetti, la cui ferrea volontà influenza lo
Stato, il diritto, la legge e l’ordine, che sono una diretta emanazione storica
della classe sociale al potere.
Recentemente ho rivisto su un
canale televisivo tematico, il bellissimo film di
Giuliano Montaldo, “Sacco e Vanzetti” (del 1971), interpretato da due attori magistrali,
Gian Maria Volonté e
Riccardo Cucciolla, calati nei panni dei due
anarchici, un’opera cinematografica di gran pregio, impreziosita da una sublime
colonna sonora composta da Ennio Morricone, la cui
parte canora è stata interpretata dall’incantevole e soave voce di Joan Baez, la più importante
cantautrice pop statunitense. Al termine della visione del film, dopo essermi
commosso ancora una volta, ho meditato sulla dolorosa e imperdonabile
ingiustizia sofferta dai due anarchici italiani (che, ricordo, sono stati
tardivamente riabilitati dal governo U.S.A.), una violenza perpetrata dal
sistema politico-giudiziario statunitense, cioè da
quella che viene abitualmente osannata e celebrata come “la più grande
democrazia del mondo”.
Una persona, che insieme a me ha assistito al film, ha espresso il seguente pensiero:
“Chissà che dolore hanno provato i due compagni sulla sedia elettrica!”, come se
un metodo meno doloroso di esecuzione di un’ingiusta pena capitale potesse
attenuare e ridurre l’entità del torto, della violenza, dell’ingiustizia. Che si
tratti della sedia elettrica o di un’impiccagione,
della ghigliottina o della fucilazione, di una decapitazione a colpi d’ascia o
di un’iniezione letale, ogni modalità tecnica di attuazione della pena capitale
è indubbiamente legata e riconducibile alle condizioni temporali e spaziali in
cui vive un determinato ordinamento statale, una determinata formazione sociale.
E’ altrettanto indubbio che persino la civiltà giuridicamente più avanzata, che
escluda dal suo codice punitivo la condanna a morte,
sostituendola con un più “umano” ergastolo, ossia con il carcere a vita o con
altre pesanti sanzioni carcerarie, e che ogni tanto conceda un’amnistia, un
indulto, un condono, uno sconto di pena, una grazia, mostrando in tal guisa un
volto di “clemenza” e di “equità”, in realtà si propone soltanto di camuffare
ipocritamente la sua vera natura repressiva e reazionaria, mistificando
l’autoritarismo e l’iniquità di fondo su cui si regge qualsiasi sistema
economico-sociale di tipo classista, che ha bisogno di “normalizzare”,
“istituzionalizzare” e “legalizzare” le aspre contraddizioni e le profonde
sperequazioni materiali e sociali esistenti.
Restando sempre in materia
cinematografica, mi viene in mente un altro film, diretto da
Luigi Magni, intitolato “Nell’anno del Signore”, uscito nel
Personalmente non concordo affatto con la tesi contenuta nell’asserzione
lapidaria di Pasquino, che probabilmente parlava a nome del regista del film, il
romano Luigi Magni.
Non sono d’accordo per tanti
motivi, ma soprattutto per innegabili ragioni storiche.
Infatti, tutti coloro che hanno messo rigorosamente in pratica un simile
orientamento strategico-politico, attenendosi alla
lettera al modello e allo spirito rivoluzionario incarnato da Pasquino e
riassunto in quella sua frase, hanno miseramente fallito. Si pensi, ad esempio,
alle Brigate Rosse in Italia, alla R.A.F. nella
Germania Ovest, a tutte quelle formazioni e quei gruppi combattenti emuli
delle Br, che hanno adottato una linea di lotta armata
durissima, inflessibile, senza “cuore” e senza “pietà”: hanno tutti perso
tragicamente. Persino quelle rivoluzioni sociali e politiche che erano state
inizialmente vincenti, come la rivoluzione bolscevica del
A mio avviso, il problema di fondo sta nel fatto che quando si rigetta e si elimina il
“cuore”, vale a dire l’umanità, nella lotta e nel movimento di una rivoluzione,
il rischio principale che si corre è quello di allontanarsi ed isolarsi dal
carattere, dalla forza, dal sentimento e dallo spirito delle masse popolari, per
diventare aridi e spietati, addirittura più violenti e spregiudicati del potere
che si intende affossare. Non si può sconfiggere il nemico emulandolo,
altrimenti si rischia di assomigliargli troppo e si finisce per sostituire un
altro sistema di potere e di oppressione, più cruento
ed efferato rispetto a quello che è stato abbattuto e rovesciato.
Io credo che non si debba cercare
di sovvertire e conquistare il potere, ma bisogna semplicemente negarlo e
ripudiarlo tout-court, senza emularlo o eguagliarlo, evitando di farsi plagiare,
sedurre, e quindi corrompere, dal suo fascino subdolo, malefico e
perverso.
Lucio
Garofalo