Cari e care, il documento di Salvatore , Felice, Piero e Luciano è senza dubbio un'ottima base di discussione. Molto importanti, a mio giudizio, gli "Otto Punti" di "Un Ponte per...", nei quali oltre a un'analisi politica della situazione irachena esposta in maniera didascalica ma di grande chiarezza ed efficacia emergono anche alcuni elementi conoscitivi che fino ad ora non sono stati reperibili da quasi nessun'altra fonte e su cui ritornerò. Da questo punto di vista anche il documento dell'ICS, sia pure da ripensare in alcuni passaggi, ha una indubbia utilità. Venendo al bresciano, proprio alcune sere fa ho avuto modo do ascoltare la testimonianza e la riflessione di Don Fabio Corazzina - che si trovava in Iraq proprio nella settimana successiva all'attentato di Nassiriya - e che dovremmo assolutamente cercare di agganciare al percorso che mi auguro si verrà costruendo nella nostra provincia.
A mio parere le iniziative da mettere in cantiere dovrebbero avere tre direttrici: controinformazione: smascherare le bugie e l'oscuramento pressoché totale dei media alleati/ allineati in relazione a ciò che è avvenuto e che accade quotidianamente in Iraq (con tutto il rispetto per la Guzzanti e per chi si sta mobilitando in sua difesa mi pare davvero incommensurabile lo "scandalo" che sta avvenendo sull'informazione di guerra); indicazione degli autentici obbiettivi politico economici e strategici della guerra; monitoraggio dell'effettiva condizione della popolazione e della società irachena; opposizione alla guerra: richiedere con forza il ritiro immediato di tutte le truppe d'occupazione come condizione preliminare all'avvio di ogni iniziativa di pace; evidenziare in tutte le sedi i risultati catastrofici della guerra sul piano umano, politico e sociale, per la produzione di morte e distruzione; invitare alla riflessione sull'ennesima prova del fallimento totale di qualsivoglia iniziativa bellica e riproporre il suo abbandono definitivo dagli strumenti della politica; ribadire la netta condanna di ogni forma di terrorismo, sempre più complementare e speculare alle azioni di guerra; proposte di pace: sostenere con energia tutte le iniziative italiane ed internazionali di aiuto e sostegno alla popolazione civile che abbiano a fondamento del proprio operato la condanna di ogni guerra. Richiedere in tal senso un pronunciamento del Parlamento Italiano e di quello Europeo per mettere a disposizione di queste ONG strumenti, mezzi e risorse da sottrarre alle spese militari; sostenere, nell'immediato, l'invio (come suggerisce il documento di "erre") di una "forza internazionale che garantisca una transizione non violenta e la stabilizzazione delle istituzioni indipendenti"; presa di contatto e dialogo con le realtà che si oppongono all'occupazione, cercando di comprenderne gli obbiettivi, le proposte politiche e gli strumenti e le pratiche di lotta; cercare di stringere legami di collaborazione e sostegno ai gruppi di resistenza che ricomprendano tra i loro obbiettivi politiche di pace, di solidarietà, di partecipazione diretta dei/delle cittadini/e iracheni/e alla vita pubblica e che utilizzino (come ci invitava a fare Nella Ginatempo) come scelta strategica e preminente strumenti di lotta e di resistenza non armata (sciopero, boicottaggio, sabotaggio, noncollaborazione con le truppe occupanti, disobbedienza civile, difesa popolare nonviolenta, ecc.).
Naturalmente per fare tutte queste cose serve un impegno di lavoro che il solo Gruppo Pace e Solidarietà non è in grado di sopportare, e non aggiungo altro alle considerazioni che sul tema ha già svolto Walter.
Vorrei per concludere fare anch'io alcune considerazioni sul documento di “erre.
In primo luogo vorrei dire che la citazione dal documento del GLT Nonviolenza e conflitti della rete di Lilliput non solo non è convincente ma è un passaggio assolutamente infelice: un tentennamento che nemmeno lo scoramento di fronte alla ipocrita controffensiva “umanitarisitica di guerra” dei media italiani, lanciato senza la minima vergogna dopo Nassiriya, può giustificare. Detto questo, bastava leggere poche righe oltre per scoprire che quelle stesso documento richiedeva il “ritiro immediato di tutte le truppe d'occupazione”.
Non ripeto le considerazioni esposte da Walter sulla questione “resistenza”, che condivido appieno. Credo che, pur distinguendo nettamente tra resistenza e terrorismo, solo ad alcune condizioni il movimento pacifista possa sostenere esplicitamente una formazione di resistenza presente sul campo.
Ritorna in quel documento il tema della nonviolenza. I compagni di “erre” per un intero paragrafo fanno una riflessione ricca di spunti interessanti e condivisibili. Su alcuni passaggi però vorrei fare delle considerazioni. Non so quali siano i soggetti che oggi propugnano “atteggiamenti ideologici, per cui la nonviolenza sarebbe una sorta di dichiarazione di fede aprioristica”. Credo però che sia fuorviante partire da queste considerazioni. Innanzitutto per le ideologie, che restano e permangono importanti, sono la nostra linfa vitale. Ogni ideologia propone una “concezione del mondo”, una weltanschaunung, come si diceva una volta. Come potremmo farne a meno? Questo movimento ne sta di fatto proponendo una, ancora in corso di costruzione certo, ma indubitabilmente indirizzata verso un mondo radicalmente diverso da quello che oggi ci circonda. Se per “assunto ideologico”invece si intende un atteggiamento chiuso, rigido, indisponibile al dialogo, sono d'accordo, la discussione, ovviamente, non può partire da lì. Sarebbe interessante però nominare questi soggetti. Non so nemmeno quanti fanno “dichiarazioni di fede aprioristiche”. Credo però che nemmeno questo passaggio vada confuso con un'altra cosa, a mio parere ben più importante (con tutto il rispetto per i fedeli). Sto parlando di quell'atto, assolutamente laico, della “scelta”. La scelta della nonviolenza, in questo caso. Credo lo sappiate già ma val la pena di ricordarlo: figure molto diverse tra loro, come Gandhi, Capitini, Martin Luther King o Danilo Dolci si sono sempre considerati come “amici” della nonviolenza, oppure persone che guardano con “simpatia” alla nonviolenza. Che io sappia nessuno si “é” definito nonviolento. Essendo questa scelta un continuo tentativo, un infinito esercizio, una molteplicità di possibilità con le quali manifestarla. Ma perché proprio questa scelta? E' stato detto in molti modi e con una infinità di definizioni, e certo non possono bastare poche righe per spiegare una strada sulla quale si sono scritte tante pagine. Mi limiterò quindi solo a una abborracciata sintesi: vivere e praticare una radicale diversità dai paradigmi – di sfruttamento e di violenza – del potere dominante (il capitalismo neoliberista, nel caso odierno) cercando di operare mettendo in coerenza i mezzi e fini che si intendono raggiungere. Anche sull'aprioristico avrei qualcosa da dire. Mi verrebbe da fare una battuta: quali scelte si fanno a posteriori? Sicuramente uno che dopo una determinata scelta ci riflette sopra e pensa, a posteriori, che la prossima volta ne farà una diversa compie un percorso di grande saggezza. Ma la prossima volta farà pur sempre una scelta, prima di sapere quali saranno le conseguenze della stessa. Sarà una scelta “apriori”? Oppure per non correre questo rischio bisogna sempre fare una scelta diversa da quella precedente? E non c'entra nulla qui la considerazione – fondamentale – sulla valutazione del contesto. Per ogni contesto anzi va messa in pratica la forma di lotta migliore, come dice il documento. Ma la scelta nonviolenta, come ho cercato di argomentare prima non presuppone affatto una sola forma di lotta, tutt'altro... In quel documento si parla del “rifiuto di pratiche violente” che a me sembra una formulazione di grande importanza. Credo però che oggi basterebbe molto meno, basterebbe semplicemente concordare e rispettare un patto per il quale solo azioni e pratiche discusse e condivise dall'intero movimento venissero messe in atto nei luoghi e nelle iniziative concordate dall'intero movimento stesso. E non sto riducendo il tutto a “pratica o metodologia” come è scritto nel documento. Sto solo cercando di concordare un primo passo verso quel “rifiuto di pratiche violente” di cui prima. Lo so poi si arriva alla solita domanda: e se la polizia carica che faccio, le prendo - buono buono - o mi “autodifendo”? Naturalmente chi afferma ciò non è di certo a conoscenza delle pratiche di autodifesa nonviolenta, che prevedono molti passaggi ma escludono qualsivoglia offesa all'avversario. Ma non voglio argomentare ora su questo terreno. Mi limiterò solo a una domanda: la strada della nonviolenza – su questo non ci sono dubbi - è una strada molto rischiosa (lo ricordava Nella poco tempo fa), qualcuno pensa davvero che ci siano strade meno rischiose? Qualcuno pensa davvero che il prezzo già pagato nella gran parte del secolo scorso possa essere bissato in questo secolo ripercorrendo le stesse strade?
Chiudo con un'ultima considerazione strettamente legata con quanto ho appena detto. Nel documento si adombra – se non ho mal inteso - il pensiero che radicalità del conflitto e forme di lotta nonviolente non si accordino proprio benissimo. Credo sia esattamente il contrario, la storia di tutte le lotte nonviolente lo dimostra anche se non tutte hanno avuto esiti esaltanti. Il problema è che molti di noi credono di avere buona esperienza dell'idea e delle pratiche di conflitto. Io credo che non sia esattamente così. Credo che sulla gestione e la pratica del conflitto (certo uno dei momenti più arricchenti della dinamica sociale e relazionale) abbiamo ancora molto da imparare e da inventare.
Se oggi dovessi pensare a qualcosa che può legare – fatte tutte le debite differenze – la lotta di Scanzano e della gente lucana con le grandi e spesso vincenti mobilitazioni avvenute negli ultimi anni nell'America Latina mi verrebbe spontaneo fissare come primo punto di una virtuale sintesi proprio questo: conflitto radicale, di massa e, per la stragrande maggioranza degli uomini e delle donne impegnati nella sua realizzazione, assolutamente nonviolento.
Un saluto di pace alle sorelle, ai fratelli, alle compagne ed ai compagni.
Mimmo Cortese