La pace
è possibile.
Il “Gruppo Martin Buber –
ebrei per la pace” ritiene che sia un compito irrinunciabile per gli ebrei della
Diaspora dare un sostegno alle forze che si battono per la pace in Medio Oriente
e facilitare la comprensione e il dialogo fra le società civili israeliana e
palestinese.
La natura stessa del
conflitto, quello fra due popoli che devono convivere sulla stessa terra,
comporta che i protagonisti di una giusta soluzione debbano essere in primo
luogo i protagonisti del conflitto stesso, israeliani e palestinesi. Nessuna
soluzione imposta dall’esterno potrà realizzare una pace completa e duratura;
nessuna soluzione tuttavia potrà essere raggiunta senza un’equilibrata opera di
mediazione e il sostegno della Comunità Internazionale. Essenziale a questo fine
un maggiore impegno dell’Europa.
La condizione di
Israele
L’attuale crisi determinatasi
con l’esplodere della seconda intifadah, fino alle stragi di civili israeliani,
ha posto in discussione il futuro stesso dello Stato d’Israele, alimentando nei
suoi cittadini un senso angoscioso di insicurezza fisica e psicologica. La
radicalità di questa condizione, non compresa con chiarezza dall’opinione
pubblica e dalle classi dirigenti in Europa, è stata percepita con forza
dall’opinione pubblica ebraica, in Israele e nella Diaspora, rinnovando la
condizione ebraica di sradicamento e di solitudine.
Di fronte alla situazione
creata dalla strategia del terrorismo suicida e dalla regressione integralista
di parte della società palestinese, sentiamo la necessità di ribadire il diritto
all’esistenza in condizione di pace e sicurezza dello Stato di Israele, la cui
nascita ha rappresentato uno storico traguardo per il popolo ebraico e per
l’umanità.
Territori in cambio di
pace.
Il “rifiuto arabo”, opposto
per molti anni al riconoscimento e alla pace con Israele, ha provocato lutti e
dolori di cui ha sofferto e soffre in primo luogo il popolo palestinese. Il
superamento del “rifiuto arabo” e l’accettazione di Israele come Stato legittimo
pienamente integrato nel Medio Oriente non dipendono esclusivamente dal mondo
arabo ma richiedono anche da parte israeliana una visione ed un’azione politica
volta al dialogo e all’integrazione nella regione.
L’occupazione dei territori
arabi, avvenuta nel corso della Guerra del 1967, fu mantenuta dai governi
israeliani con la motivazione che, in una futura trattativa, essi avrebbero
costituito una decisiva carta negoziale da usare in cambio dell’accettazione
dell’esistenza di Israele in base alla dottrina “territori in cambio di pace”.
Ciò è avvenuto con la restituzione del Sinai e l’accordo di pace siglato con
l’Egitto ma non ancora per ciò che riguarda il Golan, la Cisgiordania e
Gaza.
Proprio per questo l’idea del
ritiro unilaterale israeliano, senza un preventivo accordo di pace, è, a nostro
avviso, improponibile. Tale atto,
invece di facilitare un accordo, conterrebbe in sé la rinuncia alla ricerca di
una sistemazione stabile e quindi il rischio di una nuova
guerra.
Gli
insediamenti.
Dagli anni Ottanta, però, la
dissennata politica degli insediamenti e della confisca delle terre in
Cisgiordania e Gaza ha mutato il carattere dell’occupazione israeliana
rendendola permanente fino a forme di strisciante annessione. L’esigenza di
protezione degli insediamenti e dei loro abitanti ha determinato un sistema di
gravi e umilianti restrizioni alla libertà e alle condizioni di vita e di lavoro
della popolazione palestinese.
Tutto ciò ha radicato fra i
palestinesi la convinzione che anche la limitata Autonomia, scaturita dagli
accordi di Oslo, altro non fosse che il progetto di relegare il futuro Stato
palestinese ad un mero insieme di enclave frammentate e circondate dalla
presenza dell’esercito e degli insediamenti israeliani. Gli insediamenti hanno
quindi avuto una duplice conseguenza negativa: togliere credibilità alla formula
“territori in cambio di pace” e, contemporaneamente, trascinare il popolo
israeliano in una pratica di dominio su un altro
popolo.
Iniziare unilateralmente una
politica di smantellamento degli insediamenti, a partire da quelli nella
striscia di Gaza, avrebbe quindi un duplice valore: avviare la soluzione del
problema e lanciare un segnale di disponibilità per la composizione pacifica del
conflitto.
La politica
palestinese
L’attuale tragica situazione,
con i suoi insopportabili costi umani, trae principalmente origine dal mancato
accordo di Camp David (luglio 2000). Il divario fra le posizioni è stato in
buona parte colmato dalle successive proposte definite dai “Parametri di
Clinton” (dicembre 2000) e discusse nei negoziati di Taba (febbraio
2001).
Certamente i governi
israeliani succedutisi dopo l’assassinio di Rabin non hanno voluto comprendere
quanto grave fosse il livello di delusione e disperazione della società
palestinese. Tuttavia dello scoppio della “seconda intifadah” rimane primaria la
responsabilità dei gruppi dirigenti palestinesi, convinti di poter ottenere
condizioni migliori di quelle respinte a Camp David ricorrendo all’uso della
violenza. Tale scelta è stata resa più grave nelle sue conseguenze
dall’ambiguità mai risolta nei rapporti con l’estremismo
integralista.
Diversamente dalla prima
intifadah del 1988, rivolta popolare spontanea che ha generato un nuovo gruppo
dirigente e l’accettazione della dottrina “due popoli due Stati”, la “al-Aqsa
intifadah”, dai forti tratti islamici, è stata organizzata e guidata dalle varie
formazioni palestinesi, ed ha presto assunto la forma di un conflitto
militarizzato, degenerato rapidamente in violenza
terroristica.
La politica
israeliana
È
evidente che il terrorismo, e a maggior ragione quello suicida, non può essere
debellato con il solo ricorso alla forza repressiva delle armi. L'esperienza
dimostra che le ritorsioni militari israeliane, oltre a provocare vittime
innocenti, sono un detonatore di ulteriore violenza, in una spirale ininterrotta
di reciproche brutalità.
Le radici del terrorismo si potranno estirpare solo
dall'interno della società palestinese stessa: per questo scopo Israele deve
compiere scelte utili a separare la società palestinese dai mandanti del terrore
e offrire una prospettiva di pace e di convivenza che dia soprattutto ai giovani
la speranza di un futuro normale e quei concreti “benefici della pace” che
a metà degli anni '90 avevano iniziato a configurarsi.
Il governo israeliano si è rivelato incapace di
affiancare alla repressione militare l’offerta di una soluzione politica. La sua
azione sembra guidata dalla volontà di distruggere l'Anp e l'intero movimento
nazionale palestinese, nell’illusione che i palestinesi sconfitti finiranno per
accettare uno stato permanente di soggezione a
Israele
Questa azione contribuisce ad allontanare la prospettiva di
una composizione pacifica del conflitto, alimenta l'isolamento internazionale di
Israele e mette in pericolo il suo futuro come Stato democratico, coerente con i
valori fondanti dell’ebraismo.
L’unica soluzione: la
trattativa.
La condizione per assicurare
sopravvivenza e dignità ai due popoli è il superamento della logica del
terrorismo e della guerra con il ritorno al tavolo delle trattative, senza
precondizioni. Perché ciò avvenga occorre un rinnovato impegno della comunità
internazionale e, soprattutto, un cambiamento negli orientamenti delle
leadership dei due popoli.
In particolare, noi riteniamo
che i contenuti dei negoziati di Taba siano il riferimento essenziale e
realistico per siglare un accordo definitivo che
veda:
·
la costituzione di uno Stato palestinese in Cisgiordania e
Gaza, nei confini precedenti il conflitto del ’67 (tranne che per limitati
aggiustamenti territoriali concordati fra le
parti);
·
lo sgombero degli insediamenti ebraici (tranne quelli
concordati fra le parti);
·
Gerusalemme capitale dei due Stati, con le opportune
soluzioni già prefigurate nella trattativa che consentano di conservare l’unità
della città;
·
una giusta soluzione per i profughi palestinesi che combini
il loro ritorno nello Stato di Palestina con un adeguato piano di indennizzi
finanziato dalla comunità internazionale;
·
in questa cornice si potrà affrontare la questione
dell’indennizzo per gli ebrei profughi dai paesi arabi; le risorse raccolte per
tale opera potranno essere utilizzate anche per finanziare progetti di
cooperazione e sviluppo nell’area.
Al di là dei dettagli delle soluzioni diplomatiche, resta
in noi la convinzione profonda che israeliani e palestinesi potranno assicurare
a sé stessi un futuro di convivenza soltanto se rinunceranno all'uso della
forza e saranno capaci di stabilire un rapporto basato su reciproco rispetto e
sulla pari dignità.
Gruppo
Martin Buber – ebrei per la pace
Roma
Novembre 2002
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